Una ragazza di campagna con il Bologna F.C. tatuato sulla pelle e sul cuore

Primo episodio di un racconto di fantasia… In collaborazione con Radio Digitale Bologna 

Era la serata di Halloween, avevo la schiena rotta per il lavoro sui campi; lo scenario nella campagne di Zola Predosa era davvero da cartolina, adatto per il tema della notte degli zombi e delle zucche. Da un paio di giorni era calata quella nebbia che ti si appiccica addosso e ti bagna tutta. Giusto mi avevano salvato poche sigarette e qualche bicchiere di vin brulé che Mario, il fattore di un casolare vicino al mio posto di lavoro, preparava per il pranzo. Ero arrivata di filato a casa sul mio motorino, un F10 tutto scocciolato, e dopo una bella doccia rigenerante mi ero messa a riposare, giusto il tempo di liberare la testa per poi piazzarmi al pc, con fissa in sottofondo Radio Digitale Bologna che trasmetteva a scheggia l’anteprima rossoblù. Nei giorni precedenti mi aveva contattata anche un loro giornalista, Danilo Billi, proponendomi una collaborazione. La cosa mi aveva preso in contropiede, ma poi avevo pensato: perché no? Billi mi avrebbe chiamata a breve ed io avrei potuto essere utile alla causa del Bologna proprio a pochi mesi della fine del Daspo, preso in una domenica infernale nel corso della quale la Digos aveva pensato bene di bollare a caso una parte del mio gruppo. Io, come al solito, ero finita in mezzo, non tanto perché avessi fatto qualcosa di strano, nella mia vita avevo fatto cose molto più illegali, ma forse perché ero l’unica ragazza del mio gruppo, fatto che quella maledetta domenica mi giocò a sfavore, e poi da sempre la loro voglia di farci chiudere, decimando le nostre presenze allo stadio, aveva aperto il fascicolo delle indagini. Mi ricordo che, quando arrivò il provvedimento restrittivo, ero come sempre a lavorare, firmarono i miei genitori per me e, una volta a casa, lessi il verbale, con una rabbia che mi faceva tremare i polsi, almeno una decina di volta. La sera presi una sbornia pazzesca al baretto del paese, ma la mattina dopo i miei problemi non erano spariti, erano ancora lì stampati sul quel maledetto foglio, vidimato dai bolli della Questura di Bologna. Mi ricordo che piansi, ma più che altro mi sentivo smarrita, avevo passato una vita intera allo stadio, prima con gli amici dei miei, visto che purtroppo in famiglia da me sono tutti gobbacci, poi una volta avevo iniziato ad andare in curva con una mia amica, ma per due ragazze sole non era poi così facile. Una domenica, infatti, trovammo dei problemi con dei giovani che, invece di provarci come solitamente facevano con le scuse più banali, anche se la più gettonata era chiedere se avevamo qualche cerino per accendere, visto che gli accendini li sequestrano all’entrata, durante la partita iniziarono a romperci le palle, a spingerci, e tirarci anche qualche calcio. Quella volta presi davvero parecchia paura, tanto che per un lungo periodo, pur seguendo la squadra da lontano, mi allontanai da quel mondo. Ma il Bologna, lo stadio, la baldoria e la fattanza erano elementi che ormai mi appartenevano, che mi scorrevano nelle vene. La prima volta, infatti, che entrai allo stadio, ma dal settore della curva, pensai subito “Maggie, o questa sarà la tua salvezza o la tua fine”. Sì, perché da sempre sono stata d’indole un maschiaccio, anche se ho sempre amato i ragazzi ma sono sempre stata una calamita vagante per i guai. Così un sera, mentre ero al bar del mio paese, che per un po’ avevo evitato di frequentare, ritrovai alcuni amici di sempre che, come me, erano tifosi sfegatati del Bologna e, da un paio di mesi, avevano preso anche loro ad andare in curva Andrea Costa. Bene, lì mi scattò dentro qualcosa, non potevo perdermi questa occasione per sentirmi di nuovo libera, perché nella mia vita ho sempre avuto poche certezze, ho sempre amato e quando l’ho fatto ci ho messo il cuore, anche se più di una volta ho scelto le persone sbagliate e il cuore me lo hanno strappato dal petto senza neppure chiedermi scusa. Non ho mai avuto troppe amiche femmine, perché per quelle di città ero vista per il mio lavoro come una contadina, e qui in paese le poche ragazze che ci sono mi hanno bollato sempre come una tossica, o peggio ancora, solo perché ho sempre amato non fare troppi giri di parole e andare dritta al punto. Io non sono la tipa che se ne sta tutto il pomeriggio a prendere il tè con i vestiti all’ultima moda; magari disegno, ballo in camera come se non ci fosse domani, tiro un cuscino sperando che si apra e escano le piume, perché sono un bel trip di ragazza ma, allo stesso tempo, ho i miei sogni, le mie debolezze e le mie fragilità, il ciclo e gli sbalzi d’umore, so fare la pasta in casa, ma so anche parlare di calcio come i nonni nei bar. Ma quello che mi ha sempre bollato rispetto alle altre ragazze è che poi, magari, mi piace bere e fumare, ma almeno non faccio nulla per nasconderlo, reggo più alcool io che alcuni uomini, e per questo mi hanno sempre etichettato loro e i loro amici, così nel tempo sono cresciuta con i ragazzi più grandi del paese, almeno loro mi rispettavano e qualcuno ovviamente ci provava, però ho iniziato a fare lavorare la testa veloce, insomma sono cresciuta più in fretta di altre, o meglio ho dovuto sviluppare di più il senso pratico, la soluzione più semplice e veloce, e magari mi è mancato il mio mondo femminile di quando, prima di decidere una cosa, ti consulti con l’amica del cuore e ci pensi una settimana, ma io non potevo permettermelo, io dovevo ragionare e farlo in fetta, altrimenti sarei finita sempre nei guai. Spensi quella serata fumando un po’, da lì a poco saremmo partiti con tutti i parenti per un soggiorno in Puglia, ma avevo ancora del tempo e stavo cercando spunti per disegnare i nuovi adesivi del gruppo. I mesi precedenti ero stata in ansia per la questione della maglietta, ogni anno, da quando ero entrata nel gruppo, avevo preso con piacere questo tipo di compiti, che poi alla fine compiti non sono, e poi con il ricavato del materiale potevamo fare cassa anche per gli altri nostri diffidati. Gli avvocati ti aiutano, ma sono degli squali mangia soldi, dunque ci dovevamo sostenere anche fra di noi e a me, pensare che gli altri approvassero un mio disegno destinato ad una maglietta, ad una spilla, o ad un semplice adesivo, prendeva bene, una mia creazione a spasso allo stadio o in giro per Bologna. La cosa, allo stesso tempo, mi agitava tantissimo, la curva si sa non è mai stato un mondo per ragazze, ma, finalmente, avevo trovato la mia dimensione e, dunque, volevo ogni anno fare disegni più belli dell’anno prima e diventavo matta a studiare qualcosa. Ma si sa’, le idee migliori mi venivano sempre la notte, dunque dopo aver consumato gli occhi sul computer per disegnare un po’, spensi la luce e andai a dormire, con tutti quei disegni che mi giravano nel cervello. Ero sicura che prima o poi avrei trovato, anche per questa stagione, quello giusto, quello che quando lo vedi esclami: “Che figata!”, insomma quello che, senza troppe parole, ti entra dentro e ti cattura. Dopo la Puglia ero ritornata a Zola, quel viaggio era stato un toccasana per me, ero stata via con tutti i miei, mi ero divertita tantissimo, avevo staccato la spina dalla solita routine di tutti i giorni, ed avevo avuto tempo di vivermi appieno la famiglia con tutti gli altri parenti meridionali, quando ecco la telefonata di quel giornalista di Radio Digitale:

“Ciao Maggie sono Danilo della radio, ti posso parlare?”, risposi di sì, alla fine tutte le novità specie se sono legate al Bologna mi incuriosiscono tanto.

“Sto’ scrivendo una rubrica che parla della curva e dei suoi tifosi e volevo anche il tuo punto di vista, volevo anche il tuo personaggio dentro, tu mi potresti dare una mano rispondendo di tanto in tanto alle mie domande?”.

Non so’ perché, ma quella voce e quella persona mi avevano da subito ispirato fiducia e gli diedi il mio assenso, chi ci prova si pone in tutt’altra maniera e poi conoscevo la radio, così gli risposi di sì: “Certo, se posso essere d’aiuto fammi sapere cosa ti serve e cosa vuoi sapere”.

“So’ che tu, Maggie, fai parte di un gruppo ultras dell’Andrea Costa, in cosa consiste il tuo ruolo?”

“C’è tanto da fare nel gruppo, a dire il vero io mi occupo in particolare della gestione del materiale, dalla creazione, alla stampa, alla distribuzione e tengo i rapporti con l’esterno”.

“Ok figo! Quante ragazze siete nel tuo gruppo?”.

Quella domanda mi tagliò un po’ le gambe ma poi risposi la verità: “Al momento solo io”, silenzio dall’altra parte. Poi: “Ok, dunque sei l’unica ragazza del gruppo e come mai?”. Ecco una domanda che odiavo e che spesso invece mi sentivo fare, perché le persone, non solo al mio paese, tendono a giudicare una ragazza ultras che sta in mezzo a soli uomini, tanto i pregiudizi ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Magari gli altri non pensano che mi piace il Bologna, che lo amo alla follia, e che essere parte attiva là in mezzo, a urlare, a partecipare a riunioni per il materiale, a sbattersi e non farsi sbattere, sia una forma mia di espressione. Il calcio è sempre stato, purtroppo, molto maschilista, avete voi visto mai in giro per l’Italia una ragazza, non dico al megafono, ma semplicemente al tamburo o intenta a sbandierare? No, facciamo tanto i moderni, poi alla fine? Ho deciso di colmare io quel vuoto, quel silenzio. “E’ bellissimo perché mi trattano tutti bene, e io mi diverto perché vivo appieno la mia passione, posso sentirmi viva e dare il mio apporto, prima eravamo più ragazze ma, attualmente, sono rimasta sola, speriamo che con il tempo ne tornino altre”.

“Benone lo spero anch’io per te, ti volevo chiedere, quando hai tempo, se mi mandi un po’ di appunti su come vivi la curva, perché avrei piacere di scrivere qualcosa anche su di te, magari ogni volta che puoi, se ti va”.

“Si certo che mi va! Dai magari quando posso ti mando qualcosa ma anche tu, tanto ora hai il mio numero, inviami qualche domanda, considera che ora, però, fino all’anno nuovo sono diffidata…”.

“Va bene sei stata molto gentile, ok allora di tanto in tanto anch’io ti scrivo e ti chiedo magari qualcosa di più specifico”.

“Va bene!”.

Attaccai il telefono con quella strana contentezza che ha una bimba il giorno del suo compleanno, quando deve scartare un regalo ben imbustato, essere la protagonista di un racconto sulla curva, dio mio, questa non mi era mai capitata nella vita. A rompere l’idillio di quel momento in cui per un attimo mi ero sentita al top, arrivò la chiamata di Filo, il mio ex, un ragazzo di Bologna molto più grande di me. L’avevo conosciuto in curva e la nostra storia poteva servire per un’intera enciclopedia moderna. Lui, diciamocelo senza troppi giri di parole, era figo duro, addominali scolpiti, ma quello che mi erano piaciuti più di tutto erano stati il suo sorriso, i suoi occhi, la dolcezza iniziale con la quale mi aveva a modo suo corteggiato, perché per Filo il corteggiamento era stato:

“Maggie vieni a bere con me stasera, offro io, magari però andiamo da Scheggia dove la birra costa poco”.

Mi ricordo che dopo diverse bevute da Scheggia, mi portò in Piazza Maggiore con il suo vespino, e li ci sedemmo sulla scalinata di San Petronio, mentre poco più in là due ragazzi si stavano baciando e, invece, alla nostra sinistra un altro suonava delle canzoni di De Andrè.

Lì Filo mi disse: “Perché non facciamo come loro, ci baciamo e ci mettiamo assieme?” Non risposi ma lo baciai. Non avevo davvero capito in che razza di casino mi sarei messa, ma io sono una nata in mezzo, navigo sempre in un mare di guai.

Filo faceva parte della curva, anche lui era un “famigerato” Ultras del Bologna, un tipo tosto, a vederlo da fuori sembrava il classico uomo dannato che non ha paura nemmeno del fuoco, e poi aveva una spiccata dote nel creare dal nulla situazioni potenzialmente ad alto rischio, anche mentre si camminava per la strada. All’inizio della nostra storia, visto che non aveva la macchina, spesso ero io che andavo a Bologna, uno perché mi ero innamorata della città, che alla fine ad una ragazza di paese sembra davvero grande, e poi perché vedevo gente di tutti i generi. Mi rimase stampato in mente la prima volta che vidi un punk, un vero punk, noi al paese non abbiamo mai visto un vero punk, penso che si sarebbero scandalizzerebbero tutti, sarebbe probabilmente arrivata anche la famigerata polizia, sì perché io odio la polizia ma questa è un’altra storia che magari un giorno vi racconterò, e non per il fatto che sono stata diffidata, ma per altri fatti ancor più gravi che mi hanno vista coinvolta in prima persona come vittima e non come attaccabrighe. Insomma quella sera mi ricordo che stavo comprando alla macchinetta un pacchetto di sigarette, vicino a via Indipendenza, ed eravamo diretti a bere una birretta in un pub in via Mascarella, quando mi si avvicinano due ragazzi, penso della bassa, e iniziano a darmi da dire, classico di come fanno al sud Italia, Filo a quel punto non gradendo affatto la cosa li prese a cascate in testa; ovviamente fuggimmo, per fortuna riuscii al volo a prendere almeno le paglie. Così passammo tutta la sera a scappare per le vie del centro di Bologna, perché poi i due tipi nel giro di poco tempo avevano raccolto altre tre amici e ci davano la caccia. Ma Filo era così, mi era entrato nel cuore e lo aveva catturato, una volta tornati da una trasferta a Milano, in pieno inverno, sempre a bordo della sua vespa, con un freddo pazzesco (qualche giorno prima aveva anche dato una spruzzata di neve), mi volle portare a tutti i costi sui colli, ovviamente, all’altezza della prima curva dopo il Tanari, prendemmo un lastra di ghiaccio in pieno e capottammo a terra, finendo la serata al Rizzoli, lui con un ginocchio andato e io con una mano da steccare, oltre a quelle che avevo già tirato per la caduta. Ma poi quando facevamo l’amore era una cosa bella, bellissima, era come se i nostri corpi si fondessero e mi sentivo protetta, amata, sicura, stavo bene come un goal del Bologna al 93’, in quei momenti ero davvero me stessa, senza maschere senza freni, ma passionale e dolce. Quel ragazzo mi aveva rapito davvero il cuore, me lo aveva stregato, ero incatenata a lui, e anche lui per tanti anni lo era stato a me, ma nonostante tutto l’amore che provavo, era difficile stare con Filo, lui era una macchina da guerra per infilarsi in situazioni bizzarre, allo stadio non mancava che spesso litigava per un non niente, e poi era legatissimo alla sua Bologna, quando veniva a trovarmi in paese lo vedevo che soffriva, vedevo che non era a suo agio, io ho sempre amato Bologna, in particolare il centro storico, e la parte vicino limitrofa allo stadio, per me la città è bellissima, fatata, strana, un sacco di portici, di locali, di pub, che avevo perso il conto, considerando che qui dove vivo al massimo ci sono tre bar in croce, di cui uno, frequentato solo dai anziani del paese. E’ proprio la mentalità che è diversa, però alla fine per quanto amassi Bologna, non riuscirei mai a viverci, sono la tipa che quando ha i suoi scazzi, prende la macchina e va via a culo, per poi fermarsi da qualche parte a raccogliere i pensieri. Se dovessi farlo a Bologna, rimarrei soffocata in mezzo al traffico. Per me era anche assurdo concepire di dover pagare ogni volta il parcheggio, dunque con tutto l’amore del mondo che posso avere per il mio gruppo, per il Bologna, io non riuscirei mai a viverci se non la notte quando è tutto più tranquillo, di giorno mi mancherebbe l’aria, e poi da sempre sono stata abituata a lavorare in campagna in mezzo alla natura con ogni tipo di tempo, sì probabilmente quella sbagliata ero io, oppure no, non lo so, a riguardo mi sono fatta sempre mille paranoie e questo Filo lo aveva capito, specialmente quando per un periodo di tempo, in particolare i fine settimana, mi trasferivo a vivere da lui. Filo abitava nel quartiere Dozza, in un appartamentino lasciatogli in eredità dal nonno, a quelle 4 mura mancava davvero il tocco femminile, era un disastro vero e proprio, ma i problemi veri non erano certi quelli, arrivarono poco dopo, quando lui perse il lavoro come elettrauto e si trovò qualcosa da fare che di legale aveva ben poco. Sbazzava con un napoletano che un tempo lavorava con lui, e aveva un buon giro, in particolare nella zona università, ma poi una sera, prima di una Bologna vs Milan, quella della grande coreografia fatta con il copricurva grande grande con la scritta: Bolognesi siamo noi!” lo fermò in via Farini, alle 7 di sera, una voltante della Digos, e gli diede sei mesi. Quel giorno mi sentivo strana, e rimasi con le lasagne a freddarsi e un gran magone nel cuore, avevo una sensazione come se fossi un animale in gabbia che vuole liberarsi perché sente che la terra sta per tremare. Per me quello fu un colpo durissimo, soprattutto quando tutto fu reso pubblico sul giornale e lo lessero anche i miei. Mi ricordo che in particolare mio babbo mi fece un discorso molto serio, non tornai mai più in quella casa se non per prendere le mie cose, e per un due mesi circa, anche se stava arrivando l’estate, non uscii quasi mai dopo il lavoro, se non per andare alle riunioni del gruppo, e a stento trattenevo le lacrime, avevo una rabbia dentro… sì, ero incazzata un tot con Filo, per la situazione in cui mi aveva messo, perché, come per la nicotina, ero diventata dipendente, ma lui alla fine aveva fatto la sua vita in barba alla mia, al nostro legame. Un legame che per me era speciale, unico, forse per la prima volta mi ero davvero innamorata, forse per la prima volta non ero la delinquente, la contadina, l’ultras o la ragazza facile come mi avevano etichettato in parecchi, in troppi, senza neppure conoscermi, senza neppure aver scambiato 4 parole con me, senza neppure avermi chiesto come stavo; prendevo ora anche la croce di essere una fattona e una tossica, solo perché il mio moroso era stato arrestato. Certo non sono mai stata una santa, penso che se avete letto fin qui lo abbiate capito, ma non ero neppure così appestata come mi giudicava la gente e in particolare le mie care amiche. Il periodo che ero stata la morosa di Filo era stato bellissimo, non potevo negarlo, era stato un’altalena di sali e scendi che neppure se avessi pagato uno stipendio intero alla giostre sulle montagne russe avrei fatto pari, ma almeno aveva cementato la mia fede con il Bologna, mi ricordo che ero diventata a tutti gli effetti una ragazza ultras, sì so’ che suona strano, ancora adesso quando lo dico a voce alta fa strano anche a me, però la mia vita era diventata questa e i colori rossoblu tingevano in modo indelebili il mio quotidiano. Mi ricordo le tante trasferte, Napoli, le due di Milano, Bergamo, le due di Roma… quante emozioni e quanti sacrifici, lavorando in campagna c’erano giornate, specie in inverno che arrivavo a casa con le ossa rotte, come se mi fosse passata sopra una macina, avevo giusto il tempo di buttarmi un po’ sul letto, mettere su il vecchio cd dei Lunapop, riposarmi e fantasticare, anche se spesso alla fine piangevo, ma lo facevo in silenzio, non volevo farmi sentire da nessuno, poi prendevo il mio parka, mettevo la mia sciarpa e alle 19 partivo per Bologna e mi vedevo con i ragazzi del gruppo. C’erano tante cose da fare, da pianificare, da sistemare sia per le trasferte che per le gare in casa, come ad esempio la cassa per i diffidati, il banchetto ecc… Ma, nonostante tutto il dolore che provavo dentro al cuore, come un peso sul petto che mi portava via l’aria e l’ossigeno anche quando fumavo, era la fine del rapporto con Filo che non sopportavo, ero consapevole che c’era stato qualcosa di grande tra di noi, che non me lo sarei mai potuto dimenticare anche se l’avessi voluto, ma fu proprio quello il momento che il Bologna mi salvò, che la curva mi accettò, che il mio gruppo mi guardò, forse per la prima volta, come una persona, e non come la ragazza di Filo. Con Enrico e Gianni un giorno andammo ad un allenamento a Casteldebole, era la prima volta che ci andavo da sola, senza i miei, senza lui, c’era una nebbia fitta, e una sottile pioggia che spegneva i colori della città, ma in campo c’erano loro i miei idoli, la squadra per cui avevo speso tutta la mia vita a tifare, e forse fino a quel giorno avevo dimenticato, presa da mille cose della curva, cosa volesse dire amare e tifare una squadra, cosa volesse dire amare il Bologna. Quello strano pomeriggio, a fine allenamento, il cielo si aprì, mi ricordo che eravamo a bordo campo, perché avevo voglia di dare un cinque a quei ragazzi, mi ricordo che fu come una purificazione, in particolare quando ci venne a salutare e fare due parole con noi proprio Mattia Destro. In curva, anche se come giocatore non aveva fatto come tutti noi ci aspettavamo, lo amavamo ugualmente, perché comunque quando giocava i goal decisivi li aveva segnati sempre lui, e proprio in questo momento in cui la squadra faceva tanta legna e produceva tante palle goal la sua lunga assenza, si faceva sentire. Purtroppo Mattia era molto fragile, quasi come l’argilla, giocava una partita sì e quattro no, ma a me, oltre che piacere come attaccante perché, dopo Signori e Di Vaio a Bologna non è che erano arrivati poi questo fior fiore di attaccanti, mi faceva tenerezza, era come se quel giorno fossi entrata in sintonia con i suoi occhi dove leggevo la tristezza di chi magari si sente in debito con tutto e tutti, e di chi sa’ che ha deluso tante aspettative. Destro era una persona fragile, secondo me, e questo era il suo più grande limite, anche io lo ero stata, e forse nel mio profondo lo sono ancora, ma dopo quella storia d’amore avevo dovuto ancor di più tirare fuori gli artigli per graffiare la vita, prima che la vita graffiasse ulteriormente me. Certo le cicatrici, se non sulla pelle ma nel cuore, erano lì belle profonde ed evidenti, ma era ora di andare, era ora che tornassi a vivere, a farlo a testa alta e a urlare quell’amore smisurato per la mia squadra del cuore in piedi sui gradoni degli stadi di mezza Italia, con ogni tipo di tempo. Una volta tornando da Brescia, mi ricordo che da quanta acqua avevamo preso ci spogliammo tutti in pullman e lo feci cosi in automatico di rimanere in reggiseno e mutande che solo dopo mi resi conto che ero l’unica donna in mezzo ad un gruppo di uomini… che figura di merda… Ma tanto io sono cosi, sono una che vive di emozioni, e di atti dettati in questa vita più dall’impulso che dalla ragione, perché se avessi ragionato a questo punto sarei stata una altra persona, ma si sa che chi nasce tondo muore tondo, come chi nasce quadrato muore quadrato, e anche se uno prova ad invertire il flusso del suo essere, alla fine non ci riesce mai, io poi quando prendevo il volo, mi tuffavo in una vasca piena delle mie fantasie, fatte del mio mondo magico che alle volte in pochi capivano, molti mi davano anche della rimasta, ma attenzione magari potevo per lo più essere etichettata come una fattona, perché non ho mai nascosto la mia passione per il fumo e per storcermi specie in certe serate, anche quando prendo la macchina e faccio i miei solitari, ma di certo non sono una rimasta o un’incantata. Chi mi definisce così, proprio vuol dire che non ha capito nulla di me, e se anche alle volte mi dava davvero sui nervi e mi si chiudeva la vena quando mi definivano così, altre volte facevo finta di nulla perché facevo finta di crederci, perché da una rimasta non ti aspetti altro che piattume e alzate di ingegno, cosi da una parte mi faceva comodo perché so che alla lunga li avrei messi tutti in buca stupendoli con effetti speciali, e poi sarei passata a raccogliere i denti. Io continuerò sempre a pensare con la mia testa, perché è l’unica cosa che nessuno mi toglierà mai, nonostante le apparenze, nonostante che, per molti, sono la ragazza di strada, di campagna, l’ultras che va in curva e accende i fumogeni e fa casini, solo io so’ quello che veramente sono in questo mondo ammalato, sono sicura che c’è un mondo anche per gente come noi, poeti estinti di sogni, perché quando sono al Dall’Ara, e entrano i giocatori in campo, e noi siamo lì, fra una sciarpata, impestati dalla puzza acre dei fumogeni, mentre i tamburi scandiscono il ritmo e noi perdiamo la voce, e per tutti i 90 e passa minuti siamo lì sul pezzo, e come me da piccola i ragazzini e non solo loro ci guardano dai distinti con gli occhi pieni di orgoglio, quando, dopo una palla magari rubata da Palacio, si sente ad unisono un boato, quando tutto come lo scorso anno sembra finito, e poi arriva Sinisa e i ragazzini diventano gladiatori nell’arena dei leoni, quando dopo un goal ti abbracci e parli con uno sconosciuto, quando ti senti orgogliosa di quello che stai facendo, perché se giri la testa sia a sinistra che a destra e vedi un marea rossoblu che fa la stessa cosa che fai tu, e ti senti parte di un cosa più grande di te, ti senti viva, ti senti una regina, e capisci che non può piovere per sempre, ma anzi in quel momento ti senti felice, ti scoppia il cuore in petto perché sei superorgogliosa di te e dei ragazzi, perché noi ultras del Bologna siamo persone semplici, con il Bologna F.C. tatuato sulla pelle e sul cuore.

Danilo Billi

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