Su Facebook ho scritto ogni anno, puntuale come un orologio svizzero, un pensiero allo scoccare della mezzanotte che dal 15 porta al 16, il giorno in cui mio padre Antonio Billi si spense all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, dopo che un auto pirata qualche giorno prima, esattamente il 13 gennaio 2003, lo aveva inevitabilmente falciato, tanto che mi padre spaccò il parabrezza con la testa per poi essere violentemente sbalzato a terra da quella macchina.
Per lui la vita era arrivata al capolinea, per lui la vita aveva tirato fuori il cartellino rosso, anche se lui non aveva commesso alcun fallo di espulsione, ma si sa’ le cose troppo spesso vanno così, ovvero tutto al contrario di una logica che vede il bene e le azioni giuste trionfare sulle scorrettezze, ma questa è un altra storia.
Per tutti gli anni che hanno fatto seguito io e mia mamma abbiamo consumato le nostre menti a chiederci il perché di tutto questo, scomodando anche l’Altissimo, il perché di una morte violenta che, oltre a strapparti un affetto nei fiore dei suoi anni, di farti piombare da lì a poco nel baratro sentimentale ed economico, mi ha fatto crescere in fretta, proiettandomi subito nel mondo degli adulti, con un macigno di responsabilità di capo famiglia che forse non ero pronto a caricarmi sulle spalle, troppo preso come ero a vivermi la mia gioventù bruciata in balotta con gli amici di Bologna e di Pesaro.
Ma la macchina per tornare indietro nel tempo, ancora per noi poveri umani non è stata messa in commercio, e dunque bisogna accontentarsi di quello che ci rimane, ovvero poche foto sbiadite, visto che a mio padre non piaceva mettersi in posa, e un’area del cervello troppo carica di flash.
Mi sono ricordato, sfogliando proprio questo mio blog, che ho scritto tanti ricordi e tributi a cari amici che, purtroppo, non ci sono più, e ho sentito la necessità in questa circostanza di dedicare anche un tributo a quella persona esile e magra, tutto il contrario del sottoscritto, che era mia padre.
Scrivere una sua memoria non è facile, tenterò di farlo di pancia, aggrappandomi alle caratteristiche che lo hanno resto “famoso” fra i suoi colleghi e non.
Mio padre era arrivato a Bologna da Brighella, perché fin da giovane amava il Bologna calcio, che da piccolo già seguiva con i suoi amici del paese e della vicina Faenza, loro fuggivano via per venire in città, andando allo stadio con ogni mezzo, auto, treno, se avessero potuto anche in bicicletta, se le distanze fossero state più corte.
Antonio si trasferì all’ombra delle due torri dopo gli studi, andando ad abitare a casa dello zio paterno Pilade, violinista del Teatro Comunale e l’asso di briscola per lui fu trovare un lavoro al Credito Fondiario della sede centrale della vecchia Carisbo, esattamente in via Farini, dove restò con l’incubo permanente di un eventuale trasferimento tutta la vita, fino alla pensione che coincise con la sua drammatica scomparsa.
Mio padre mangiava ogni tipo di cose, specialmente i tortellini e le carni, dalla cacciagione agli arrosti, in particolare di agnello, e adorava condire il tutto con del buon vino, inoltre, a differenza mia non ingrassava mai, anzi spesso in ascensore nel palazzo dove abitavamo in via Benedetto Marcello, molti condomini scherzando, con quella spiccata ironia che contraddistingue da sempre noi bolognesi, chiedevano a mia madre, quando tornava a casa con la spesa, se gli dava da mangiare, o se divoravamo tutto noi.
Ma la sua grande passione era lo sport, in particolare il Bologna Football Club; poteva piovere, nevicare o esserci un sole estivo lui era lì su quei gradoni della curva, dove assieme ai suoi amici di sempre aveva fondato anche il suo gruppetto e incitavano sempre il Bologna, senza esimersi quasi mai nel mandare a quel paese quelli di fuori e l’arbitro, infatti, questo particolare non me lo scorderò mai, per Antonio se il Bologna perdeva quasi sempre era colpa dell’arbitro.
Lui più che per la famiglia viveva per la sua squadra del cuore, i rossoblu venivano prima di tutto e di tutti, e anche quando una volta si ammalò ed un ictus lo costrinse all’età di 42 anni ad una lunghissima degenza al Sant’Orsola e a separarsi dall’amato Bologna, volle una radio, per sentire via etere la cronaca delle partite e tutte le trasmissioni della poche emittenti locali di un tempo che mettevano in onda le loro rubriche di calcio cittadino.
Il Pallone Gonfiato e il Civ erano i suoi preferiti e guai a disturbarlo quando era sintonizzato alla radio o in TV.
Il suo fu un amore eterno che si portò dietro anche nella tomba, infatti quando fu seppellito a Brisighella la bandiera del Bologna era lì ad avvolgere la bara, quasi a scaldarlo, perché quel giorno, come oggi era un inverno freddo, di quelli rigidi che ti fanno battere i denti.
Ecco mio padre era questo, compagnone con alcuni colleghi, che spesso vedeva nelle misteriose cene che organizzavano e da dove tornava spesso abbastanza satollo di cibo e di vino, sempre presente come un soldato che ama la sua patria al fianco del Bologna e dei luoghi di culto che c’erano in città, come il Bar Otello, in via Orefici o il Chaos, in via della Fondazza, e che lo celebravano.
Grazie a lui, ho imparato anche io ad amare quei colori rossoblu, e ora che non c’è più sento che devo tifare più forte, per due, perché devo farlo anche per lui.
Solo cosi potrò rendergli omaggio e tenerlo stretto vicino a me, e dunque quando devo fare ogni tipo di sacrifico per seguire il Bologna anche a distanza, ora che vivo a Pesar, lo lo faccio volentieri, perché penso che lui da lassù mi guarda compiaciuto.
Per una volta non ho voluto fare il solito scritto su Facebook, ma ho voluto ricordare qui una persona semplice, alle volte anche solitaria, rispettata in curva Andrea Costa ma soprattutto che non doveva morire cosi presto, perché ha lasciato un grande vuoto e una grande eredità umana da colmare.
Così ogni volta che scrivo “Fino alla fine forza Bologna”, mi viene in mentre lui allo stadio e lo sento più vicino al cuore.
Danilo Billi